Luigi di Ruscio, tanti poeti dentro uno solo
IL RICORDO. Mercoledì 23 febbraio si è spenta una delle voci più potenti e originali del panorama letterario italiano. Più di 50 anni trascorsi nell’estremo Nord Europa.
Articolo di Mauro Francesco Minervino
Luigi di Ruscio is dead. The 23 of february 2011 at 4:00 AM. Un’email aperta troppo tardi. Partita dallo stesso indirizzo di posta elettronica che era di Luigi, da vivo. L’ho letta che era pomeriggio. È firmata dal figlio, Adrian. Nient’altro. Cosa c’entrava con la letteratura italiana un operaio? Uno che lavorava in una fabbrica di chiodi, a Oslo, in Norvegia? Luigi Di Ruscio, classe 1930, era un poeta italiano. Una voce vera, potente e originale come poche altre. Poeta autodidatta nell’Italia del dopoguerra, muratore disoccupato e militante di base nel Pci di Palmiro Togliatti, poi emigrante in Norvegia.
Di Ruscio è stato molti uomini insieme. Molti poeti dentro uno. Lo hanno chiamato poeta operaio. Definizione senza dubbio riduttiva. Ha vissuto, ha scritto ed è morto altrove, lontano. Più di 50 anni trascorsi nell’estremo Nord d’Europa. È vissuto in Norvegia dal 1957, quasi ininterrottamente, fino al giorno che è morto. C’era arrivato da Fermo, città delle Marche dove era nato. La scelta di emigrare dopo i primi stenti, le frustrazioni e le lotte sociali del dopoguerra. La civile e fredda Scandinavia, meglio dell’angustia bigotta e disperata di certa provincia italiana anni ‘50.
Viveva a Oslo. Una moglie, una famiglia e una vita in quel paese. Di Ruscio principia tutto sfondando confini, frequentando gli antipodi. «Io amo la Norvegia e anche mia moglie nordica, in Italia non avevo mai capito bene che vivevo in un pianeta, tanto ero immerso nel mio specifico», aveva scritto. In Norvegia Di Ruscio era rimasto per conquistarsi una soglia di vita minima, uno status umano definitivo. Sposa Mary Sandberg. Hanno quattro figli e vivono in una piccola casa popolare. La sua vita non sarà mai quella del poeta o del letterato. È quella anonima del lavoratore salariato, del metalmeccanico nella grande fabbrica metallurgica.
Già le sue prime poesie dicono di una fatica senza rimedio, di un mondo operaio segregato e dolente. La condizione marginale invece che affievolirlo col tempo ha acuminato il suo sguardo. Libri, vita di fabbrica e passione politica, tutt’uno con lo spirito sovversivo e fluviale. La sua lingua quotidiana era per forza di cose il norvegese. Ma la sua poesia e la sua lingua ciancicata e fantasiosa rifluivano ampie da una mescola di italiano ultracolto e sgrammaticato, impastato alle fonte mai inaridita del dialetto di casa. Le sue Marche e l’Italia del dopoguerra restavano coinvolte in ogni parola, indimenticate. A lui si deve una lingua d’invenzione, un bolo continuamente rianimato e rimasticato a memoria, nel vantaggio dialettico e straniato della distanza.
Parole di una poesia dura e vera, ironica e sacrale, da grande eresiarca medievale. L’italiano lo riservava alla poesia, prodotta a ondate inarrestabili nell’arco di decenni, nelle ore rubate al sonno e dopo la fatica del lavoro. Un lavoro di fatica che stritolava muscoli e nervi. Nervi che dopo restavano scoperti di rabbia, medicati di poesia. Sfruttamento che però Di Ruscio non ha mai isterilito nell’odio.
Nella sua poesia c’è spazio per l’epica del lavoro (l’alienazione primitiva di una fabbrica di chiodi), un sentimento religioso kantiano e mangiapreti, un’antica e robusta fame di giustizia che si manifesta in invettiva rauca e copiosa. Di Ruscio è stato il poeta ruzzante di un corpo mai separato dall’anima e della quotidianità. La sua ostinazione etico-politica, il suo comunismo poetico, unito alla sua olimpica trascuratezza per le strategie letterarie, hanno fatto il resto.
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